L'arrivo insieme del 2009

IpoterTUA: il travaglio ipotermico della mia compagna di gara (e di vita) Tite nel corso della CCC del 2010

nota: questo racconto era nella mia testa da quei giorni, ma per motivi diversi fino ad oggi non era ancora stato scritto

Arriviamo a Trient a notte fonda, saranno le due o le tre di notte. Salvo piccoli attimi di tregua, stiamo prendendo pioggia dalle dieci della mattina precedente, dalla partenza di Courmayeur.

Abbiamo freddo e siamo stanchi, ma siamo anche euforici: ci manca “solo” l’ultimo colle (il famigerato tete au vent) e poi è finita. Stiamo viaggiando intorno alla 400° posizione assoluta, per Tite si tratterebbe di un risultato prestigioso e insperato, per me di una bellissima rivalsa su quella sorte avversa che solo due mesi prima mi aveva portata alla rottura di un malleolo, con i conseguenti 32 giorni di gesso e con meno di un mese per ritrovare la condizione per fare 100km di montagna: mi volevo rifare e ci stavo riuscendo benissimo.

Manca quindi solo l’ultimo colle, una ventina di km, forse qualcosa in più, e circa 1.000 metri di salita. Siamo vicine al fuoco, nella squallida tenda del ristoro di Trient che per l’occasione ci sembra accogliente e calda come il salotto di casa. Guardo Tite, è stanca e ha freddo e vorrei abbracciarla ma non ama le effusioni in gara (prima, durante e dopo) così soprassiedo.

E’ stanca e ha freddo, ma è determinata. Tiene la schiena al caldo e intanto con gli occhi percorre lo spazio intorno alla ricerca del monitor delle classifiche. Rispetto all’anno precedente, siamo in anticipo di due o tre ore. Mi chiede ancora qualche minuto, ma anche lei non vede l’ora di ripartire.

Siamo di nuovo fuori, la pioggia sembra ancora più forte. I primi km sono molto facili, forse troppo: non riusciamo a correre per la stanchezza ma cerchiamo di procedere al meglio con passo sostenuto; così però non ci scaldiamo abbastanza e il freddo si fa sentire sempre di più. Finalmente – penso io – arriva l’inizio dell’ultima salita: l’impegno più sostenuto ci farà scaldare, le cose andranno meglio… e poi è l’ultima, poi è fatta. Io mi sento piuttosto bene; Tite forse si sente meno bene, ma mi rassicura: procediamo.

Iniziamo a salire ma poco dopo comincio a vedere il crollo. Normalmente Tite in salita mi alita sul collo, con il suo passo leggero sostenuto e amplificato dalla leggerezza dello spirito yogico cui attinge – giustamente – a piene mani ad ogni occasione. Invece la vedo e la sento avanzare sempre più lentamente, come una di quelle gitanti domenicali che ogni due o tre passi si fermano a guardarsi intorno.

Avanza e si ferma, avanza e si ferma: sempre meno avanza e sempre più si ferma. Ci passano in molti, qualcuno chiede se ci serve aiuto: no grazie, va tutto bene, siamo lenti ma possiamo continuare. Nel frattempo la gara è stata interrotta per maltempo ma noi non lo sappiamo: non capiamo come mai, ma non vediamo più anima viva.

Rimaniamo soli in uno scenario inquietante. La tete au vents è una landa lunare, non ci sono sentieri ma solamente rocce ovunque, come sparse a caso da un’esplosione. L’acqua continua ha ormai lavato tutto, non si vede neppure dove c’è acqua e dove no: guardi nel cono di luce della frontale, intravedi uno spazio pulito dove appoggiare il prossimo passo, e ci cammini dentro sentendo l’acqua arrivare al polpaccio. Rialzi la testa cercando di illuminare il percorso, ma non è semplice: la nebbia è così fitta che la balise successiva (le balise sono le strisce colorate e catarifrangenti che indicano il percorso da seguire, ndr) non viene raggiunta dal fascio di luce. A volte procedo nella nebbia per alcuni minuti, scandendo l’orizzonte con il fascio della mia frontale alla ricerca del prossimo riflesso, che comincio a chiamare il riflesso di speranza: quella piccola luce a conferma del nostro cammino diventa per molto tempo l’unico mio pensiero, insieme al pensiero di Tite.

Mi tengo davanti a lei di una ventina di metri, giusto per darle un punto da seguire. Ogni tanto controllo: avanza come può, si ferma, riparte. Ma dopo qualche km di questo trattamento, è stremata. Si ferma. Torno da lei, la guardo. Non ricordo la sua espressione, ma non dimenticherò mai le sue parole: “mi fermo qui, tu vai a cercare aiuto”. E’ evidente che non ragiona più: a 2.200 metri di quota, alle quattro di mattina, sotto la pioggia e con una temperatura vicina allo zero, ad almeno 3km dal punto di ristoro successivo, senza un sentiero tracciato da seguire e senza aver visto anima viva da ore si tratta evidentemente di una cosa priva di senso.

La guardo negli occhi cercando di risultare più convincente possibile: “se ti fermi sei morta, non sto scherzando”. La frase forte evidentemente accende qualcosa nella sua testa: riprende ad avanzare. E io riprendo il mio ruolo di bastone e carota, davanti a lei di qualche decina di metri, tenendola d’occhio mentre cerco la balise successiva.

Il momento peggiore arriva poco dopo. Sento un flebile grido che si perde nella nebbia, mi arriva solo la parte finale: “….iuto !!!”. Mi giro, Tite non c’è. Muovo la frontale a destra e a sinistra, in alto e in basso, e un riflesso attira la mia attenzione: la suola della sua scarpa luccica nella nebbia qualche decina di metri più indietro. Corro.

La trovo distesa sulla schiena, con la testa verso valle. E’ diventata parte integrante del ruscello impetuoso nel quale è scivolata dopo un passo falso. Non dice nulla, in qualche modo sembra contenta di essere lì. E’ ad un passo dal diventare parte imprescindibile di quella stessa montagna: Tite au vent.

La tiro su e la rimetto in piedi. Non so se ci siamo parlati, ma evidentemente l’episodio la riscuote dal torpore, trova un guizzo reattivo e riprende a muovere i piedi. Non avrà altri momenti di cedimento, riesce a tenere duro, consapevole del fatto che ormai al ristoro non dovrebbe mancare più molto. Non PUO’ mancare ancora molto.

Quando iniziamo a vedere le luci, a me viene quasi da piangere, a lei non so. E’ una dura, lei. Appena entriamo, il personale medico non dice niente: la prende, la spoglia, la copre di coperte e la stende su un lettino. Quando dopo un po’ alzo gli occhi vedo tutti gli altri intorno a noi, bozzoli tremanti avvolti nelle coperte, ognuno intento a ritrovare il proprio indispensabile equilibrio termico.

Quando vedo che tutto è finalmente sotto controllo, raccolgo le mie cose e riprendo il cammino. La accarezzo. “Ci vediamo a Chamonix”, ma non credo che mi stia sentendo.

Mancano solo 9 km, tutti in discesa; è anche arrivata la luce, e ha smesso di piovere: diventa una passeggiata. Certo non piacevole come avrebbe dovuto essere perchè avevo creduto di potercela fare insieme a Tite almeno quanto ci aveva creduto lei. Ma è anche la mia rivincita, e quella parte almeno si sta completando bene. Quando arrivo stanno ormai andando via tutti, la gara è stata interrotta da ore e non si aspettano altri arrivi. Devo avvicinarmi io ai ragazzi dell’organizzazione: “scusate, io avrei finito giusto ora, posso avere la mia medaglia ?”