Il servizio completo di foto (a ben guardare, incompleto…) è disponibile qui Unfinished LUT

finished tite

finished tite

Unfinished L.U.T. 2012

Doveva essere la gara dell’anno: la L.U.T, Lavaredo Ultra Trail, 120km e 5.750 metri di dislivello positivo nel cuore delle Dolomiti, uno degli scenari più belli e suggestivi del mondo.

Questa volta però, nei giorni successivi alla gara, all’abituale dolore muscolare si sostituiva un più leggero – ma anche subdolo – dolore dell’anima: perchè così – sommessamente dolorosa – risuonava nella mia testa la sintesi dell’avventura: RITIRO.

Stavo facendo la gara insieme a Tite, con l’intenzione di aiutarla e sostenerla. La notte era andata molto bene e l’andatura era stata buona, tuttavia al km 66, poco oltre la metà gara, avevamo deciso di comune accordo di abbandonare: un insieme di carichi di lavoro non ancora smaltiti e qualche disagio fisico di troppo (lei aveva nausea e una caviglia dolente, e io avevo ancora lo stesso tallone ululante che mi aveva indotto a chiudere la 100 e lode al km 75) ci aveva dissuaso dal proseguire.

RITIRO !!! Questa parola terribile mi risuonava nella testa come una vergogna da cancellare. E mi impediva di vedere oltre: avevo fatto insieme a Tite una bellissima notte nei boschi sopra Cortina, nella nebbia, nell’umido, nel buio. Ore e ore di corsa e marcia senza mai un’esitazione, senza mai incappare in una delle mille insidie di un bosco notturno: inciampare su una radice troppo sporgente, scivolare su un ciuffo d’erba reso insidioso dall’altissima umidità, storcere caviglie o ginocchia in qualche passaggio estremo tra le rocce. E poi le indimenticabili immagini delle prime luci del giorno sopra il lago di Misurina, e l’uscita dal rifugio Auronzo, fino a pochi minuti prima ancora avvolto nelle nebbie della notte, in uno scenario da sogno, con le Tre Cime che, ormai liberate dall’abbraccio della notte, cominciavano a scintillare nel cielo terso di quella giornata di inizio luglio.

66km, 3.000 metri di salita e poco meno di discesa… ma siamo proprio così sicuri di dover parlare di fallimento ? Certo, rispetto al traguardo prefissato si, ma il sospetto che potesse esserci una chiave di lettura diversa aveva iniziato a farsi strada nella mia mente non appena il clamore del sentimento negativo (RITIRO ! RITIRO !) iniziò a calare: stavo dimenticando di apprezzare i tratti comunque positivi di quella che, alla maggior parte delle persone, sembra già un’impresa epica. Ma non è questo il punto: ancor più stavo rischiando di dimenticare che poter percorrere 66km e 3.000 metri di salita, in maggior parte di notte e in condizioni così impegnative, è già di per se un dono meraviglioso da apprezzare e valorizzare, e del quale essere grati (ognuno scelga poi il destinatario della propria personale gratitudine).

E anche la decisione di ritirarsi invece che continuare ad ogni costo, rischiando di farsi davvero del male, magari ricorrendo a qualche massiccia dose di antidolorifico – pratica a quanto pare assai diffusa – per riuscire a non ascoltare le proteste legittime del proprio corpo, deve essere vissuta in chiave positiva: come una forma di sopraggiunta maturità – e quindi di forza – e non come una dimostrazione di debolezza.

E’ così quindi che guardo alla prossima Trans d’Havet (80km, 5.500 D+, e ancora una volta partenza a mezzanotte) senza dare troppo peso alle condizioni psico-fisiche non ottimali nelle quali verso: se starò sufficientemente bene, se la sofferenza sarà quella “normale” (alzi la mano chi non soffre almeno un po’ per arrivare in fondo a queste scampagnate) arriverò in fondo. Ma saprò fermarmi, all’occorrenza, prima che il desiderio di arrivare in fondo a tutti i costi vada a trasformare in massacro quella che penso debba essere e rimanere una dura, impegnativa ma al tempo stesso piacevole avventura. E sapendo che, nell’eventualità, non smetterò di sentirmi, anche se nella mia piccola insignificante parte, un pochino superdonna – o superuomo – anch’io.